da “La Sicilia” del 7 aprile 2012
Lo scandalo che ha coinvolto il tesoriere della Lega, Belsito, a poche settimane di distanza dall’altra vicenda che ha riguardato il vicepresidente leghista del Consiglio regionale lombardo, Boni, aveva prodotto nei giorni scorsi grande sconcerto tra i militanti leghisti che vedevano ancora una volta infranto il mito del partito padano incorruttibile. Le dimissioni irrevocabili di Bossi, adesso, paiono destinate non solo a creare un terremoto nel Carroccio, ma ad assestare il colpo di grazia a un sistema politico già in stato di avanzata decomposizione.
Il fatto che vengano sottratti al partito soldi destinati all’attività politica per finanziare spese personali dei dirigenti o delle loro famiglie – si tratta di una prassi che si può definire consolidata, tenuto conto di quanto emerso a seguito di un altro scandalo che ha coinvolto Lusi, il tesoriere della Margherita – nella considerazione generale pare ancora più grave di un «normale» fatto di corruzione. Non c’è da sorprendersi, quindi, di fronte al rifiuto che il Paese manifesta nei confronti del sistema dei partiti nella sua interezza, come ha avuto modo di rilevare attraverso un recente sondaggio il professor Mannheimer, sottolineando che tutti i partiti sono oggetto nella stessa misura della disistima popolare. Solo cinque elettori su cento hanno ormai fiducia nei partiti.
Queste vicende sono rivelatrici, in primo luogo, della diversa natura che è venuto assumendo il partito nel sistema politico italiano. Esso non costituisce più un bene pubblico ma una proprietà privata, di cui il leader e il tesoriere, che è l’uomo di fiducia per eccellenza del leader, hanno la titolarità esclusiva. Siamo di fronte ad un fenomeno nuovo, il partito patrimoniale.
In un momento in cui il Paese affronta sacrifici molto seri che colpiscono soprattutto le classi più disagiate, il fatto, certo tutto da dimostrare, che i soldi versati dallo Stato ai partiti possano servire per fini diversi dall’attività politica costituisce la conferma che la crisi della politica in Italia sia giunta ormai a un punto di non ritorno.
Di fronte a questi fatti non si può fare meno di pensare, con grande nostalgia, alla storia dei vecchi partiti che hanno fatto la Repubblica, i quali potevano contare su un esercito di volontari che regalavano al partito in un anno centinaia di ore di lavoro, all’orgoglio dell’appartenenza dei militanti che facevano le collette per tenere in ordine la casa del partito, alle mille attività sociali che i partiti erano in grado di promuovere, quando ancora non c’era il finanziamento pubblico, attraverso l’autofinanziamento che costituiva una voce importante nel bilancio anche di quei partiti che ricevevano finanziamenti dall’estero. Tutto ciò era rivelatore dell’esistenza di una comunità politica che il partito organizzava, e di un rapporto tra vertice e militanti basato su sentimenti di fiducia e solidarietà. Lo straordinario potere conseguito da partiti così organizzati era tutto sommato giustificato, se si pensa che ciascuno di essi, sulla base di una visione condivisa del bene comune, portava dentro le istituzioni istanze destinate a dare vita a legami sociali sempre più estesi in un Paese che non aveva grandi tradizioni democratiche. Già per questa capacità di politicizzare la società italiana, quei partiti meritavano il potere che riuscivano a esercitare.
I partiti di oggi certamente non hanno meno potere, ma esso viene devoluto a una nomenclatura sempre più ristretta, che non ha alcun rapporto con comunità politiche organizzate, per il semplice fatto che tali comunità non esistono più. È rimasta insomma in piedi la partitocrazia, ma non ci sono più dei veri partiti, ci sono tifoserie e clientele da tenere insieme.
È vero che dopo gli anni gloriosi dei partiti impegnati a rifare l’Italia si sono avute stagione meno gloriose, che i partiti della prima Repubblica avevano via via perduto molta della loro credibilità, costretti com’erano a vivere ricorrendo a finanziamenti illeciti per tenere in vita apparati elefantiaci e costosi. Essi avevano quasi sempre i conti in rosso presso le banche, perché oberati dai debiti contratti anche per organizzare la presenza nel territorio attraverso sezioni, associazioni collaterali, circoli culturali, federazioni; molte di quelle sedi erano di proprietà dei partiti e i militanti andavano orgogliosi di quegli investimenti. Sono stati commessi degli errori, anche gravi, per far fronte ad un andamento della spesa che ormai non si riusciva più a tenere sotto controllo, e i dirigenti politici di allora hanno pesantemente pagato per quegli errori. Ma l’attività di partito c’era e si vedeva, tant’è che coloro che hanno promosso le campagne dell’antipolitica, con in testa la Lega, spiegavano che i partiti facevano troppa attività di informazione e di propaganda, che erano troppo invadenti, che in una società evoluta come quella italiana non c’era più bisogno dei partiti per sapere quali strade percorrere per realizzare le necessarie trasformazioni sociali.
Ebbene, anche negli anni del tramonto della prima Repubblica non è mai accaduto che si facesse ricorso alla cassa del partito per pagare i lussi privati del gruppo dirigente. Citaristi, Balzamo, gli altri tesorieri dei partiti sono stati messi sotto inchiesta da tutte, o quasi, le procure d’Italia, ma sull’onestà personale di essi nessuno ha avuto nulla da eccepire allora, neppure i magistrati.
Tenuto conto di ciò, adesso non si tratta di auspicare il ritorno ad un passato che non può tornare, ma semplicemente di qualificare come sprechi le risorse pubbliche destinate ad attività politiche che non si fanno, o che vengono addirittura usate per speculazioni finanziarie sulle valute estere (pare che la Lega investisse in Tanzania e Norvegia). Così come è uno spreco finanziare giornali di partito che nessuno legge.
I partiti di oggi costano meno perché non hanno un insediamento territoriale vero, perché sono partiti romanocentrici, perché sono insomma partiti rinsecchiti attorno ad un apparato centrale che decide tutto, senza che vi sia una gestione collegiale. La cassa dei partiti può essere facilmente saccheggiata anche per questa ragione.
Vi sono troppi partiti personali in cui decide uno solo, non soltanto con riferimento ai deputati da nominare, ma anche con riferimento alla gestione delle risorse. Una volta il tesoriere del partito era un dirigente ben noto alla base del partito, non era una personalità occulta, un fiduciario del leader che non rendeva conto a nessuno, tranne appunto che al leader. Da tempo ormai questo non accade più. La gestione finanziaria dei partiti segue modelli che si addicono più ad una azienda privata che ad un’associazione politica. E però, avere dei partiti privatizzati che vengono pagati con i soldi del contribuente costituisce un abuso insopportabile. Adesso, dopo quello che è successo, si farà una nuova legge sul finanziamento pubblico, come si è sempre fatto quando si sono scoperte anomalie gravi o gravissime nel sistema dell’approvvigionamento finanziario dei partiti. Stavolta, l’anomalia riguarda i soldi del finanziamento pubblico non spesi o spesi per finalità indecenti, dei quali, così ci si spiega, all’interno dei partiti coinvolti in queste vicende nessuno sapeva nulla. Per rimuovere questa situazione di opacità che riguarda tutta la vita interna dei partiti, occorrono riforme strutturali da fare con legge, e non solo autoriforme. Non basta pretendere bilanci più trasparenti e una certificazione delle spese più attendibile. Occorre cambiare le forme del sostegno finanziario assicurato dallo Stato ai partiti al fine di promuovere la partecipazione politica, dando più servizi, anche nel territorio, e meno soldi. E occorre che i bilanci dei partiti siano approvati in modo meno clandestino. Se i soldi dati ai partiti sono soldi di tutti, è giusto che tutti sappiano chi li spende e per fare che cosa.
SALVO ANDÒ
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